Manifestazione contro il carcere e la società che lo rende necessario
CORTEO contro il carcere e la società che lo rende necessario
1 anno fa
sassari
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RIFLESSIONI IN VISTA DELLA MANIFESTAZIONE DEL 29 OTTOBRE A SASSARI

Contro il carcere e la società che lo rende necessario

Il 5 maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel carcere di Bancali

in Sardegna e rinchiuso nel regime di 41 bis. Il 6 luglio la Cassazione ha condannato nel

processo “Scripta manent” Anna, Alfredo e Nicola per il reato di associazione sovversiva con

finalità di terrorismo (articolo 270-bis c.p.). Inoltre, la Corte ha accolto la richiesta di

riqualificare l’accusa verso Alfredo e Anna, dal reato di strage semplice al reato di strage

politica (articolo 285 c.p.) – che prevede come pena l’ergastolo – in relazione ad un attentato

esplosivo alla scuola allievi carabinieri di Fossano che ha provocato danni materiali alla

struttura, senza conseguenze lesive.

Sempre a luglio Juan Sorroche, un altro compagno anarchico, è stato condannato in primo

grado a 28 anni di reclusione per il reato di attentato con finalità di terrorismo (articolo 280

c.p.) per due ordigni posizionati e rinvenuti inesplosi nei pressi della sede della Lega Nord di

Villorba (TV).

Queste sentenze segnano un punto di svolta importante nella repressione da parte dello Stato

italiano, non solo nei confronti del movimento anarchico, ma più in generale verso chiunque

provi a lottare e a ribellarsi. Non è un caso che questo inasprirsi delle condanne e delle

condizioni detentive per i prigionieri anarchici e le prigioniere anarchiche arrivi in un periodo di

forte repressione che colpisce tutte le soggettività e gruppi che incrinano la pacificazione

sociale perseguita dallo Stato.

Nello stato di emergenza perenne che ormai è diventato normalità, qualsiasi protesta verso le

imposizioni dello Stato è marchiata come minaccia verso la società intera; se poi dalla protesta

si passa all’azione concreta, l’accusa verso chi agisce deve essere esemplare. Ne sono un

esempio i diversi tentativi di contestazione di reati associativi susseguitisi negli ultimi anni, ad

esempio contro la lotta NO TAV, contro la presenza militare in Sardegna e più di recente contro i

sindacati di base impegnati nella lotta dei lavoratori nel settore della logistica.

L’inasprirsi delle pene è rivolto verso tutte quelle azioni che mettono in crisi la pacificazione

funzionale a Stato e capitale. Basti pensare alla riesumazione del reato di devastazione e

saccheggio (che prevede fino a 15 anni di reclusione) nell’ambito di cortei, a carico degli ultras

e dei reclusi/e in carceri o CPR. Oppure pensiamo all’aggravamento della pena prevista per il

reato di “blocco stradale” (pratica da sempre appartenente ai più svariati ambiti di lotta) che

oggi prevede sino a 12 anni di reclusione.

Sotto attacco non ci sono solo le azioni, ma anche le idee. Diversi, ad esempio, sono i musicisti

che di recente si sono trovati accusati di istigazione a delinquere e vilipendio, semplicemente

per il contenuto dei loro testi inneggianti all’ostilità contro le forze dell’ordine, i militari o le

autorità più in generale. In ambito anarchico invece, sempre più spesso, il reato di istigazione a

delinquere viene affiancato dall’aggravante di terrorismo ed utilizzato per costruire ipotesi

associative. Si pensi alle pubblicazioni messe sotto accusa per aver sostenuto la necessità della

violenza rivoluzionaria e per aver dato voce al contributo alla lotta che Alfredo non ha mai

smesso di portare, anche da dietro le sbarre delle sezioni di alta sicurezza. Proprio per questo

motivo si è visto trasferire a maggio 2022 in 41-bis a Bancali, regime che prevede il blocco

pressoché totale della corrispondenza.

Evidentemente le idee di Alfredo sono scomode perché, coerentemente all’azione che nel 2012

lo ha portato in carcere – la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare –

spiegano con semplicità lo slancio etico che sta dietro all’agire. Questa azione riconosce

chiaramente come dietro allo sfruttamento della terra e dei popoli, non ci sono solo dei nomi di

multinazionali o di società per azioni ma uomini e donne che ogni giorno prendono decisioni

che rendono l’esistenza sempre più invivibile alla maggior parte della popolazione mondiale.

In una società neoliberale come quella in cui viviamo è sempre più evidente che le condizioni di

salute e benessere sono garantite a una ristretta fascia di popolazione, mentre per la restante

parte lo sfruttamento lavorativo, l’insicurezza abitativa e relazionale, il malessere fisico e

psicologico sono la quotidianità. In questo contesto il carcere si configura come un “ghetto

sociale” in cui vengono rinchiuse le persone che per scelta, o semplicemente per necessità, si

trovano a non rispettare le leggi dello Stato e che non posseggono le risorse economiche per

pagarsi una difesa né tanto meno la copertura delle istituzioni concessa a chi ricopre posizioni

di potere.

É interessante notare come più della metà delle persone recluse abbia una condanna per reati

legati alla legge sugli stupefacenti o contro la proprietà (furto, rapina), che il 15% dei carcerati

sia classificato come tossicodipendente e che oltre il 30% non abbia la cittadinanza italiana. La

funzione riabilitativa del carcere rimane una dichiarazione della propaganda di Stato per

rendere più accettabile una situazione che di riabilitativo non ha nulla. Come può essere

riabilitativo un luogo dove si vive in 3 metri quadrati di cella, dove l’assistenza medica è

garantita solo quando si tratta di psicofarmaci, dove si muore per mancanza di cure adeguate e

per suicidio (67 i suicidi da inizio 2022)?

Se dentro come fuori dalle carceri le condizioni degli oppressi e delle oppresse sono sempre

peggiori, è chiaro come per lo Stato diventi fondamentale recidere ogni potenziale legame di

solidarietà. Lo vediamo nel nostro quotidiano dove, da anni, qualsiasi dimensione collettiva o

comunitaria viene continuamente posta sotto attacco. Dalla precarietà e dal ricatto che

caratterizzano ogni condizione lavorativa, passando al massivo ricorso della tecnologia per

mediare ogni forma di comunicazione e scambio, alla soppressione pressoché totale di spazi

fisici di aggregazione che non rispondono alla logica del profitto, sino alla puntuale costruzione

di “nemici pubblici” contro cui, ci vien detto, ogni strumento repressivo è lecito.

L’emarginazione dell’individuo passa dunque anche dal carcere, strumento per eccellenza

finalizzato ad annichilire l’individuo attraverso l’isolamento dalla sua comunità di riferimento

(che sia quella affettiva, politica o altra). Al suo interno, nel corso degli anni, sono nati circuiti

pensati per determinati reati, come quelli di Alta Sicurezza (AS), e il regime di carcere duro del

41bis. Quest’ultimo è stato istituito sulla scia della cosiddetta lotta alla mafia e sull’onda

emotiva della strage di Capaci. Il clima di paura e il mostro da annientare sono stati la cornice

che ha reso questo strumento socialmente accettabile. Isolamento totale per anni,

discrezionalità totale e possibilità di rinnovare continuamente questo stato detentivo,

limitazione nel tenere beni personali (come la foto di un proprio caro) in cella, divieto di

ricevere libri dall’esterno, censura della posta e così via. Queste sono solo alcune delle

condizioni imposte per legge ai prigionieri e alle prigioniere in 41 bis, ma ad esse si aggiungono

quelle “discrezionali”: schermatura delle finestre con pannelli di plexiglas, sezioni poste sotto

terra come quella del carcere di Bancali, primi due anni in totale isolamento. L’obiettivo del

regime è duplice: da un lato indurre il prigioniero a denunciare altre persone, a “collaborare”

per riguadagnare un po’ di vivibilità purché si getti nelle segrete medievali qualcun altro.

Dall’altro, isolare in modo totale l’individuo, spezzare ogni legame sociale sia dentro che fuori

le mura, renderlo disumano e annientarlo.

Come sempre, l’applicazione di nuovi e più gravosi strumenti repressivi riguarda inizialmente

chi già rientra nella classificazione di “nemico pubblico” e poi, una volta passati nell’assetto

legislativo e nell’immaginario sociale, viene estesa anche ad altri. E così il 41 bis è stato esteso

nel 2005 ai prigionieri/e politici delle BR-PCC Morandi, Mezzasalma, Lioce e Blefari, quest’ultima

uccisa proprio dalle pesanti condizioni di questo regime. Ora, come dimostra il caso di Alfredo,

tocca agli anarchici. E domani chissà.

Un altro tassello dell’annientamento del singolo e della sua possibilità di essere parte di una

comunità umana è l’ergastolo ostativo, strumento con cui lo Stato condanna l’individuo a un

fine pena mai, senza se e senza ma. Tra i tanti ergastolani, ricordiamo Mario Trudu, morto di

carcere in Sardegna dopo una vita rinchiusa tra le sbarre. A chi è sottoposto all’ergastolo

ostativo sono negati tutti i benefici, in nome di una valutazione sulla “pericolosità” del soggetto

basata sul rifiuto di collaborare con lo Stato, su legami veri o presunti con la criminalità

organizzata o con la lotta politica, o sulla mancata partecipazione all’opera “rieducativa”.

L’isolamento, tuttavia, si configura anche quando non vengono applicati strumenti

particolarmente afflittivi di cui abbiamo parlato; ci riferiamo ad esempio all’utilizzo di strumenti

punitivi interni al carcere, quali l’applicazione del regime 14 bis, o le svariate condizioni di

isolamento de facto.

L’ultimo tassello che vogliamo aggiungere è quello della distanza fisica. La scelta attuata con il

piano carceri del 2009 di costruire le 4 nuove strutture detentive in Sardegna (Bancali, Uta,

Massama, Nuchis), così come di trasferirvi numerosi prigionieri nelle sezioni speciali provenienti

prevalentemente dal Sud Italia e infine il trasferimento di Alfredo, si inscrivono nel processo di

atomizzazione di cui stiamo parlando. L’isolamento dei detenuti diventa ancora più ampio

perché di mezzo c’è il mare che allunga le distanze con la propria comunità.

La storia della Sardegna, oltre a essere storia di conquista e colonizzazione, è anche storia di

carcerazione. L’introduzione del carcere avviene nel XVIII secolo con l’avvio della cosiddetta

modernità, la sua affermazione passa attraverso la definizione del banditismo come piaga

sociale ed endemica della Sardegna.

Con il Regno d’Italia la Sardegna diviene il luogo in cui chiudere “gli irregolari”, cioè tutti coloro

che non accettano le leggi del nuovo Stato o che, ridotti in miseria, cercano fuori dalla legge

spazi di sopravvivenza.

Ancora, con la ristrutturazione del sistema penitenziario degli anni ‘70 del Novecento, essa

diventa il luogo di detenzione e tortura prima per i detenuti accusati di reati di mafia poi per i

prigionieri politici e ribelli. Con l’istituzione delle “carceri speciali”, ben due delle prime cinque

strutture individuate a tal fine si trovano sull’isola.

D’altronde l’espandersi e l’evolversi del sistema carcerario sardo è da sempre legato a doppio

filo con i momenti chiave della sua colonizzazione da parte dello Stato.

Si pensi alla strenua opposizione contro l’esportazione della proprietà privata da parte dei

sabaudi nei primi dell’800, al susseguirsi degli scioperi dei minatori nei primi del Novecento,

passando alle lotte contro l’imposizione delle industrie petrolchimiche nel secolo scorso, oppure

contro le servitù militari.

L’ultima pagina di questa politica è stata, come già accennato, il Piano Carceri del 2009 che

oltre ad aumentare notevolmente la capacità detentiva dell’isola, per la prima volta ha

predisposto la costruzione di un carcere appositamente progettato per l’applicazione del 41 bis:

Bancali.

In totale ad oggi ci sono 10 strutture detentive di cui 5 carceri speciali; 3 differenti 41 bis sparsi

nel territorio e un quarto in costruzione.

Perché abbiamo sentito la necessità di scrivere tutto questo in vista della manifestazione di fine

ottobre in solidarietà ad Alfredo e tutti i prigionieri e le prigioniere? Perché pensiamo che oggi

più che mai sia necessario inserire la lotta contro il carcere all’interno della nuova cornice

politica e sociale nella quale stiamo vivendo. Un mondo dove il controllo è sempre più

pervasivo e dove l’isolamento del prigioniero è speculare all’isolamento di ogni individuo. Gli

strumenti messi in campo sono molteplici, ma l’obiettivo sembra comune: distruggere la

dimensione comunitaria dell’individuo, annichilire ogni possibilità di deviazione rispetto

all’ordine costituito.

A chi quell’ordine costituito ha messo in discussione nelle parole e nei fatti va tutta la nostra

solidarietà. Con chi lotta con ogni mezzo necessario contro la disumanizzazione dell’individuo

saremo al fianco.

Per Anna, Alfredo, Juan e tutte le prigioniere e i prigionieri che lottano saremo in strada il 29

Ottobre e oltre.

Fuori Alfredo dal 41 bis! Chiudere il 41 bis! Liberi tutti, libere tutte!