Che l'otto marzo non sia solo una ricorrenza celebrativa ma una tappa verso la libertà di tutte.
Venerdì torneremo sotto le mura del carcere di Uta, perchè siamo convinte che l'8 Marzo debba essere una giornata di tutte e non solo di chi ha la possibilità di muoversi liberamente.
Sappiamo infatti che il carcere è un'istituzione violenta, in cui tutte le ingiustizie della società rieccheggiano, isolate però tra quelle quattro mura, lontane dagli occhi di tutt3. E se questo vale per tutti i ristretti, per le deteneute la situazione è per certi versi peggiore. Essendo statisticamente in numero inferiore, le detenute si trovano infatti, per la stragrande maggioranza, in sezioni ricavate all’interno degli istituti maschili, per cui spesso vengono rinchiuse in carceri molto lontane dal luogo di provenienza. Questo rende più difficili i contatti con l'esterno, già di per sé complicati per la popolazione carceraria. La minoranza numerica compromette inoltre, per le detenute, anche l’accesso alle attività interne al carcere. L’isolamento e l'allontamento dalla propria comunità sgretolano così ciò che faticosamente, anche da "libere", cerchiamo di costruire ogni giorno: spazi nei quali proviamo ad esistere, spazi in cui proviamo a tessere reti di comunità e solidarietà, tra persone che si riconoscono in un'esistenza svantaggiata e oppressa comune, spazi che permettono di affrontare quella stessa esistenza in un modo un po' più (auto)determinato. Fare sentire la nostra presenza venerdì fuori dal carcere di Uta vuole essere allora un gesto per rompere quell'isolamento, per portare quegli spazi "di forza" e quelle reti di cura anche laddove ci vorrebbero più sole, divise, inermi.
Portiamo le nostre voci e i nostri corpi fuori dal carcere anche per ribadire un desiderio: che le problematiche del sistema patriarcale vengano inserite ed affrontante in una dimensione collettiva, sociale, di cui la comunità stessa si faccia carico, invece di nasconderle all'interno di quattro mura di cemento. Questa prospettiva è l'unica, a nostro avviso, che apre ad una possibilità di cambiamento reale.
Ciò che ci viene proposto dalle istituzioni come unica soluzione è, invece, il sistema giudiziario penale. Nella realtà, però, le forze dell'ordine e lo Stato si dimostrano insufficienti, se non addirittura complici di fronte alla violenza di genere. Ognunə di noi ha ricordo di esperienze vissute in prima persona o da amichɜ, in cui ci siamo approntate a denunciare una violenza senza essere ascoltate, anzi spesso trovandoci ridicolazzate, sminuite, colpevolizzatɜ a nostra volta. Ci vogliono zittɜ, buonɜ e accondiscendenti, niente di diverso da ciò che ci viene imposto quotidianamente. Demandando la gestione della violenza di genere al sistema penale, non si fa altro che legittimare un mondo fatto di vittime e carnefici - proprio quello che ci insegna il patriarcato! - senza offrire soluzioni reali o processi di cambiamento. Inoltre, se anche quella giudiziaria fosse una strada efficace e facilmente percorribile, non tutte possono chiedere aiuto allo Stato per affrontare una situazione violenta. Le donne richiedenti asilo, con incongruenze nei documenti, o che comunque fanno parte di comunità abituate ai soprusi della polizia quotidianamente, non si fideranno sicuramente dell’aiuto di chi le criminalizza ogni giorno, sgombera le loro case, le picchia e le arresta, perché considerate "cittadine di serie B".
Così, mentre lo Stato millanta di essere in prima linea al nostro fianco, continuiamo a morire ogni giorno per mano di uomini e istituzioni violente.
Per quanto ci riguarda, non vogliamo che il carcere diventi un luogo con le sbarre più rosa e i letti più comodi. Mettiamo in discussione la giustizia punitiva, il castigo, che riduce il problema della violenza di genere ad un problema morale, ad un conflitto interno tra due persone, ignorandone la complessità e le cause sistemiche. Un cerotto su un cratere. Mettiamo in discussione il carcere, in quanto espressione della stessa brutalità che invece dice di voler condannare.